Quanto costa una laurea?

Se il reddito medio delle famiglie italiane non supera i 2.500 euro al mese, e non c’è il supporto delle borse di studio, molti giovani sono scoraggiati in partenza

Corriere della sera

Milena Gabanelli

«D ottori», un tempo si chiamavano così i laureati. Erano in pochi ed erano considerati classe eletta. Da allora il numero è cresciuto, ma secondo l’Ocse solo il 18% degli italiani è in possesso del titolo di studio più alto. Forse perché a conti fatti non ne vale molto la pena?

Partiamo dai costi. Per chi ha la fortuna di vivere in famiglia in una città sede di ateneo, le spese sono quelle delle rette e dei testi: un massimo di 3.000 euro l’anno. Ma per i fuorisede, cioè la maggior parte degli iscritti, l’investimento è molto più alto. In città come Roma, Milano, o Bologna, una stanza singola costa in media 450 euro al mese. Poco meno al Sud.

A questo bisogna aggiungere le caparre, le bollette, la spesa al supermercato e i viaggi per rientrare a casa durante le feste. Almeno 9.000 euro l’anno secondo Federconsumatori. Vale a dire 27.000 per una Laurea Triennale, e fino a 45.000 se si prosegue anche con il biennio Magistrale.

Come fa chi ha un reddito da 2.500 euro?

Se il reddito medio delle famiglie italiane non supera i 2.500 euro al mese, e non c’è il supporto delle borse di studio, molti giovani sono scoraggiati in partenza. Secondo una rilevazione Istat, circa il 10% tra quanti hanno interrotto gli studi accademici ha dichiarato di essere stato costretto a farlo perché ha avuto difficoltà a sostenere le spese universitarie e di mantenimento. Mentre il 30% ha smesso di seguire le lezioni per dedicarsi direttamente alla ricerca di un lavoro.

Il rapporto tra reddito e titolo di studio

In Italia lo stipendio raramente è proporzionato al titolo accademico. Un diplomato in un Istituto tecnico professionale, a un anno dal conseguimento del titolo, se ha trovato un impiego stabile in un’officina, uno studio o in un negozio, può contare mediamente su uno stipendio di circa 1.050 euro mensili. Un laureato triennale, guadagna in media 1.104 euro. Chi invece ha conseguito una laurea specialistica arriva a 1.153 euro mensili. Cioè appena 1.200 euro di differenza all’anno rispetto a un diplomato, dopo averne investiti 45.000. Numeri che di certo non invogliano né le famiglie a tirare la cinghia, né i ragazzi a mettersi sui libri.

Il post laurea

Il periodo più delicato per i neolaureati è quello di transizione tra i libri e l’impiego, perché devono fare i conti con un mercato del lavoro che offre contratti brevi, e stage non retribuiti. Ancora peggio per professioni come quella di avvocato, che prevedono 18 mesi di praticantato con retribuzioni prossime allo zero. Uno studio Almalaurea calcola che un laureato con specializzazione deve attendere almeno 5 anni prima di guadagnare uno stipendio dignitoso di 1.400 euro. È dunque necessario un paracadute che consenta la sopravvivenza durante il periodo in cui non sei né studente, né occupato a tempo pieno. E non basta la disponibilità dei giovani a saltare da un part-time all’altro in attesa di impiego stabile, coerente con il titolo di studio, perché la pazienza dipende soprattutto dall’ampiezza del paracadute: più alto è il reddito dei genitori, meno dovranno preoccuparsi di come pagare l’affitto. Poi c’è il fattore geografico: al Nord trovano lavoro 89 laureati su 100, al Sud 74. Infine, secondo l’Istat, solo l’11,9% dei giovani racconta di aver ricevuto aiuto nella ricerca di lavoro da parte di una istituzione pubblica.

Il Master facilita. Ma quanto costa?

Le chances di trovare lavoro aumentano, con stipendi che partono da 1.500 euro, solo per chi ha frequentato un Master. Negli atenei pubblici le rette variano: dagli 11.000 euro in «Gestione d’impresa» a Bologna, ai 4.500 della Sapienza per una specializzazione in «Beni culturali». Quelli che riescono ad afferrare una borsa di studio, che copre in parte le tasse di iscrizione, sono appena il 21%. Dunque, ancora una volta, a fare la differenza è la disponibilità della famiglia. Che li può anche aiutare a fare esperienze, e trovare lavoro, oltre confine.

Il nodo borse di studio

Cosa stanno facendo le istituzioni per incoraggiare i giovani a investire nella propria formazione? Poco. I dati Ocse mostrano che in Italia la spesa pubblica annuale per studente universitario è pari a 9.352 euro, contro una media europea di 13.125. E preoccupa quanto avvenuto all’Università di Bologna poche settimane fa. Per la prima volta nella sua storia, la Regione, sei mesi dopo l’inizio delle lezioni, ha dichiarato di riuscire a pagare le borse di studio solo al 92% degli idonei, lasciando duemila famiglie senza i benefici promessi al momento dell’iscrizione. Un tema sempre cavalcato nelle campagne elettorali: stavolta la richiesta di eliminare le tasse universitarie è di Pietro Grasso. Il punto invece dovrebbe essere un altro: borse di studio complete a tutti gli studenti meno abbienti, ma meritevoli.

Il 30% dei ragazzi preferisce studiare belle arti, discipline umanistiche e scienze sociali, nonostante siano i percorsi con minori possibilità di trovare lavoro (lettere 61,7%, psicologia 54,4%, biologia 58,6%). Le imprese invece faticano a trovare progettisti e informatici. I numeri mostrano un colpevole scollamento fra il mondo universitario e quello del lavoro. Alla fine non stupisce il dato che fotografa i Neet (Not engaged in education, employment or training) nel nostro Paese: il 26%. Vale a dire che un quarto dei ragazzi tra 15 e 29 anni non studia, non lavora, e non è impegnato in un corso di formazione. Una percentuale elevatissima, se paragonata al 13,9 della media dei Paesi Ocse, o al 9,6 della Germania. E qui entra in ballo anche la responsabilità delle famiglie: dove stiamo sbagliando?

(ha collaborato Carla Falzone)

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