Sinopoli, istruzione e scienza le basi per un cambio di paradigma

Intervista di Tommaso Nutarelli a Francesco Sinopoli, Segretario generale FLC CGIL.

Il diario del lavoro

La pandemia ha messo in evidenza le criticità e le diversità territoriali presenti nel mondo della scuola, dell’università e della ricerca, ma ha anche rimarcato l’importanza di queste realtà per il futuro del paese. Per Francesco Sinopoli, segretario generale della FLC CGIL, la strada da intraprendere per guardare al futuro deve partire proprio da qui, rafforzando la sinergia tra lavoro e formazione, ripensando il modello economico e abbandonando ogni spinta di regionalismo e autonomia differenziata.

Quali criticità presenti nel mondo della scuola durante la pandemia?

Innanzitutto sono apparse nella loro plasticità e senza infingimenti, le profonde diseguaglianze presenti nel sistema: nell’ambito del settore scolastico, appena partita la didattica a distanza sono subito emerse le differenze tra territori per le connessioni, poi tra zone dello stesso territorio, tra chi aveva la possibilità, gli strumenti e le risorse per connettersi e chi no, chi aveva case dignitose che consentivano di svolgere attività con un minimo di spazi e chi mostrava in video ambienti e contesti familiari più difficili. Infine si è scoperto che per ben 1,6 milioni di studenti la didattica a distanza era semplicemente una chimera non avendo alcuno strumento per potervi partecipare. Si tratta di pesanti diseguaglianze che la didattica in presenza, grazie al lavoro incredibile di tutti i lavoratori della scuola, riesce in qualche modo a colmare, seppure parzialmente. Sempre in ambito scolastico è emersa la mancanza di una infrastrutturazione digitale dell’intero sistema, tanto è vero che la pagina del Ministero dell’Istruzione si è trasformata nelle prime settimane in una specie di emporio di piattaforme informative, device.

Nel mondo dell’università le cose come sono andate?

Nell’ambito dell’università, della ricerca e dell’alta formazione artistica e musicale sono emersi i guasti dell’autonomia spinta e competitiva che è stata incentivata in questi anni. Nella pandemia che stiamo vivendo, riguardo all’università e all’alta formazione, ciò ha comportato che per diritti che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale e per tutte le studentesse e gli studenti, le risposte sono state tanto diversificate quanto inique.

Quali errori ci portiamo dietro delle politiche degli anni passati?

Il colpevole disinvestimento da parte dello Stato nei sistemi di istruzione e Ricerca a cui sono seguiti potenti processi di privatizzazione, a partire dall’introduzione di meccanismi di premialità e valutazione generalmente sbagliati e totalmente inadatti a questi settori, rappresentano l’eredità più nefasta delle politiche degli ultimi due decenni portate avanti, tranne poche eccezioni, dai vari governi che si sono succeduti nel tempo.

Tutto questo che conseguenze ha comportato?

Si sono acuite le diseguaglianze tra territori, si è pesantemente ridotta la capacità del sistema di istruzione di rappresentare uno degli strumenti di riscatto per chi proviene da contesti più poveri e disagiati, trasformata la ricerca in mera risposta alle sollecitazioni del mercato, in un sistema industriale, come quello italiano, in cui l’innovazione rappresenta un elemento davvero raro, si è sviluppato un precariato che non ha eguali nella storia della scuola, dell’università e dell’alta formazione, alimentato meccanismi di conflittualità e competizione tra lavoratori e tra istituzioni in settori nei quali, invece, modalità cooperative e democratiche sono state un aspetto identitario del lavoro quotidiano.

Questa crisi ci impone di ripensare il mondo della scuola e dell’istruzione. In che modo?

Innanzitutto occorre riprendere il sentiero di investimenti pubblici diretti nell’ambito dei sistemi della conoscenza e rendere effettivo per tutti il diritto allo studio e l’eguaglianza sostanziale definiti dalla nostra Carta Costituzionale. Disintossicare questi sistemi delle tossine di questi anni che ne hanno modificato profondamente mission e obiettivi. In particolare occorre mettere alle spalle il paradigma che ha enfatizzato l’imprenditorialità come chiave di inclusione e modello di ogni comportamento civico e sociale. Ciò ha implicato l’accettazione tutta ideologica della flessibilità come rincorsa dietro il cambiamento, nella continua urgenza di essere a misura delle sue sfide mediante percorsi per il conseguimento di abilità circoscritte, a senescenza programmata.

Servirà un ripensamento anche della formazione?

Assolutamente sì. Occorre rivisitare i curriculi di percorsi formativi rendendo l’approccio trasversale e multidisciplinare quale elemento di tipico dell’agire educativo, collegare questa modalità alle profonde trasformazioni che stiamo vivendo: dall’emergenza sanitaria ai cambiamenti climatici, alla grande rivoluzione digitale che tante opportunità e incognite porta con sé. Fornire ai giovani gli strumenti, non solo per comprendere e orientarsi in questi incredibili cambiamenti ma anche per essere essi stessi protagonisti e costruttori di nuovi ed innovativi equilibri sociali. Ma l’attenzione non deve essere rivolta solo ai giovani, ma, anche, a tutti i cittadini di qualsiasi età di questo Paese. Il diritto all’apprendimento permanente, inteso non solo come aggiornamento professionale, diventerà uno dei temi cardine dei sistemi di istruzione che ne modificherà profondamente struttura e missione.

Cambierà qualcosa nei rapporti tra il mondo dell’istruzione e della ricerca e quello del lavoro?

Innanzitutto per affrontare e superare la pesante crisi che inevitabilmente si abbatterà sul nostro Paese a seguito della pandemia, sarà necessario un cambio profondo degli indirizzi di politica economica e sociale. Ciò sarà possibile solo se alla base ci saranno investimenti diretti pubblici straordinari e senza precedenti che, in totale controtendenza rispetto alle epocali politiche di disinvestimento di questi anni, sia capace di riallineare l’auspicabile riposizionamento dei sistemi produttivi in direzione dell’innovazione, della riconversione ecologica e del cambio energetico con il potenziamento della ricerca, l’innalzamento dei livelli di istruzione e formazione della popolazione e la conseguente lotta alla dispersione scolastica e agli abbandoni universitari. In questo contesto, il rapporto con il mondo del lavoro non dovrà essere visto nell’ottica di sistemi di istruzione sostanzialmente votati alla costruzione di specifici profili professionali (anche nell’accezione più ampia possibile), ma come forte e comune partecipazione verso un nuovo modello di sviluppo, nuove sensibilità rispetto ai temi che prima citavo e che dovrebbero modificare nel profondo anche le stesse indicazioni programmatiche dei veri percorsi di studio. Si tratta insomma di realizzare qualcosa di ben più radicale che la banale risposta alle esigenze immediate del mercato del lavoro sulle quali si sono scritti fiumi di parole da tanti anni.

Si riaprirà il dibattito sull’autonomia differenziata o il Covid ha cambiato le carte in tavola?

Per ripensare un nuovo modello di sviluppo serve uno Stato capace di garantire per prima cosa i diritti costituzionali fondamentali a tutti indipendentemente dal luogo in cui vivono. In questo contesto è inevitabile, ad esempio, un bilancio della regionalizzazione della sanità e dell’efficacia dei diversi “modelli”. Può il nostro paese accettare tali differenze nell’accesso al diritto alla salute o meglio può il nostro paese tollerarle sulla base della sua carta costituzionale? Si può fare anche una considerazione decisiva sul fallimento del modello di attuale regionalizzazione della sanità pubblica nella sua versione semi privata che evidentemente ha perso la sfida del contenimento dell’epidemia, e anzi, in qualche caso è stato all’origine della diffusione del contagio, e, soprattutto, di migliaia di vittime. Non è un caso che la Lombardia avesse metà dei posti in rianimazione dell’Emilia.

Questo, dunque dovrebbe archiviare ogni ipotesi di autonomia differenziata?

Alla luce di ciò si archivia definitivamente, mi auguro, ogni ipotesi di autonomia differenziata o meglio di nuovi centralismi regionali.  Uno stato più forte nelle sue infrastrutture fondamentali – quelle, cioè, che devono presidiare i diritti costituzionali – è evidentemente il contrario delle soluzioni autonomistiche lanciate prima che il virus mettesse a nudo i disastri del modello sanitario lombardo e che Zaia e Fontana avrebbero voluto estendere alla scuola. Quel che abbiamo compreso dalla lezione di questi mesi è che il servizio sanitario, come quello dell’istruzione, dev’essere universale e pubblico, senza se, senza ma, e senza deroghe. Basta con la logica del profitto sulla pelle delle persone. Ecco perché da questo presente deve nascere un futuro diverso, più giusto, più uguale, meno discriminatorio e più inclusivo.

Veniamo al decreto scuola. Come lo valuta?

Nel decreto, da un lato, ci sono le disposizioni che riguardano la chiusura dell’anno scolastico in corso e, dall’altro, quelle che riguardano l’avvio del prossimo. Sul primo versante le soluzioni proposte, anche se – di molto – migliorabili, rispondono in qualche misura all’emergenza sanitaria in corso. In ogni caso, in questo ambito sono davvero pessime le uscite della Ministra che, senza alcuna condivisione, anticipa attraverso dirette Facebook, comunicati stampe, interviste, contenuti di provvedimenti come quello sugli Esami di Stato. Si tratta di una modalità totalmente sbagliata non solo per la mancanza di interlocuzione con le organizzazioni sindacali, ma soprattutto perché mandano nel caos scuole e studenti rispetto ad appuntamenti davvero importanti da un punto di vista emotivo, pedagogico e organizzativo.

E riguardo al secondo punto?

Sul secondo versante, invece, quanto previsto per l’inizio del prossimo anno scolastico è davvero inaccettabile perché la Ministra “dimentica” totalmente che per recuperare quanto perduto in tanti mesi saranno necessari forti investimenti in tempo su scuola, organici docenti e Ata, laboratori, edilizia scolastica e sicurezza. Pensare, come fa la Ministra, che con la didattica a distanza si possano risolvere tutte, o quasi, le questioni che dovremo affrontare alla riapertura del nuovo anno scolastico, a iniziare dal distanziamento sociale che sarà l’elemento fondamentale della vita di tutti noi nell’immediato futuro, denota una grave sottovalutazione dei problemi, ancor più pesante visto il ruolo ricoperto. Inoltre, la messa a sistema di modelli di “didattica a distanza” contestabile sul piano pedagogico, rivela ulteriori elementi di perplessità quando si considerino i colossali interessi economici che coinvolgono questa materia e che, come abbiamo già detto più volte, il ministero non è in alcun modo in grado di contenere. Non va, infine, sottaciuto, che senza interventi straordinario su concorsi e graduatorie per le supplenze ne avremo un numero senza precedenti, così come l’esplosione di nomine di docenti dalle cosiddette messe a disposizione (MAD) che corrispondono, di fatto, a chiamate dirette fuori graduatoria con personale spesso privo degli indispensabili titoli di studio.

Come è stata l’interlocuzione con il governo?

I rapporti con i due ministeri competenti non sono idilliaci: se la Ministra Azzolina mira a ridurre il ruolo delle organizzazioni sindacali a quello di consulenti del Ministero, il Ministro Manfredi, invece, ha come interlocutori privilegiati i rettori delle Università, i presidenti degli Enti Pubblici di Ricerca, i direttori e i presidenti delle istituzioni di alta formazione. È ormai chiaro che stiamo assistendo a qualcosa di più della pura e semplice conflittualità con le organizzazioni sindacali.

Che cosa sta accadendo?

È in atto il tentativo di modificare in maniera permanente l’attuale sistema delle relazioni sindacali, a favore di un modello in cui i ministeri, anche quando si sarà tornati alla “normalità”, decideranno tutto senza sentire chi rappresenta centinaia di migliaia di lavoratori di questo settore, considerando la rappresentanza sindacale un ostacolo all’attività ministeriale. Il confronto e la condivisione delle scelte hanno sempre caratterizzato i momenti più importanti e di svolta nella storia del nostro sistema educativo. Senza di essi l’avvio del nuovo scolastico si aprirà in uno scenario difficile, conflittuale e aggravato da una guida ministeriale poco autorevole che alle difficoltà per l’assenza di investimenti, risponderà con la didattica a distanza, dimenticando alunni e studenti in difficoltà di cui la scuola pubblica dovrebbe farsi carico a cominciare dalla scuola dell’infanzia e primaria in cui la relazione educativa si basa su canali di comunicazione affettivo relazionali non riproducibili online.

Per quanto riguarda il mondo dell’università quali scenari si prospettano?

Per l’università e l’alta formazione dopo l’enfasi del Ministro Manfredi rispetto alle capacità delle istituzioni di aver traghettato tantissimi corsi on line, solo ora ci si accorge che i veri problemi sono ben altri: rischio di abbandoni con percentuali senza precedenti, forte riduzione degli introiti per le istituzioni per la prevedibile riduzione della contribuzione studentesca. Tutti aspetti che aggiungono ai pesanti tagli e alla precarizzazione che hanno subito in questi anni questi settori. Insomma, è vero che migliaia di corsi si stanno erogando online, ma è concreto il rischio di una pesante implosione dell’intero sistema o di parti significative di esso.

Quali misure ritenete indispensabili per una riapertura sicura?

Innanzitutto occorre partire dalla constatazione che qualsiasi idea di riavvio delle attività didattiche necessiterà di interventi differenziati in base all’età delle bambine e dei bambini, delle studentesse e degli studenti. Per questo serviranno apporti multidisciplinari che armonizzino gli aspetti pedagogici sia agli aspetti sanitari che alla sicurezza degli ambienti scolastici. Ciò comporterà la necessità di significativi investimenti per poter ripartire con un minimo di certezze.

Il sindacato cosa si aspetta?

Cgil, Cisl e Uil hanno chiesto che tutto il tema della riapertura delle scuole venga immediatamente preso in carico direttamente dal Presidente del Consiglio dei Ministri e che venga conseguentemente istituito un tavolo permanente di confronto con le organizzazioni sindacali non solo di categoria, ma anche di livello confederale. Stiamo lavorando alacremente per costruire, nel più breve tempo possibile, una nostra piattaforma complessiva, che abbia come presupposto l’avvio in tempi rapidi delle attività didattiche in presenza. Al tempo stesso deve essere chiaro a tutti che la premessa a qualsiasi proposta è il rispetto della sicurezza individuale e collettiva coerente con le indicazioni delle autorità sanitarie: nessuna fuga in avanti è pensabile o proponibile se finalizzata a disattendere tali prescrizioni. Chiunque intenderà proporre soluzioni di questo tipo avrà la più netta opposizione da parte nostra.

Pensa che il modello della contrattazione dovrà cambiare?

Sono contrario a modelli contrattuali che, sfruttando l’emergenza, mirino a modificare permanentemente le relazioni sindacali costruite nel settore pubblico e che peraltro sono state già fortemente ridimensionate da varie Leggi. Al tempo stesso, sono tenacemente convinto che proprio la contrattazione sia lo strumento più efficace per governare la gran parte dei problemi che l’emergenza ci sta ponendo. Certo, vi sono situazione inedite che, se prolungate nel tempo, dovranno essere necessariamente ridefinite contrattualmente e, in particolare, penso al lavoro da remoto, al salario accessorio, alla tipologia di lavoro da svolgere. Resta comunque inteso che, superata l’emergenza, si potranno utilizzare solo quei dispositivi contrattuali che risulteranno utili anche in una situazione di “normalità”: niente di più e niente di meno.

È aperta anche la partita del rinnovo contrattuale.

Assolutamente sì. La rivendicazione del rinnovo con le risorse che mancano per essere credibile in questo contesto deve supportarsi ad una idea di pubblico da valorizzare nella sua funzione, all’opposto di quello che è avvenuto nella crisi del 2011-2012. Investire nei settori della conoscenza significa riconoscere il valore di un lavoro che va a vantaggio della collettività e di cui oggi per importanti pezzi si riconosce il significato finalmente. Se ci deve essere un cambio di paradigma in questo deve avere un ruolo e un peso anche il rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro e la ripresa della contrattazione decentrata nella sua pienezza così come il riconoscimento dei tanti cambiamenti che sono avvenuti in questi anni nell’organizzazione del lavoro, nelle mansioni e allo stesso modo il diritto allo sviluppo professionale e alla formazione.

Quale eredità ci lascerà questa situazione?

Innanzitutto quel che abbiamo compreso in questi faticosi mesi è che il servizio sanitario, come quello dell’istruzione, dev’essere universale e pubblico, senza se, senza ma e senza deroghe. L’istruzione e la scienza sono, insieme alla sanità, le principali articolazioni dello Stato, quelle da cui si dovrebbe ripartire se davvero vogliamo noi determinare un salto di paradigma che attualmente non è affatto dato e non si realizzerà senza il protagonismo delle lavoratrici e dei lavoratori. La catastrofe sanitaria in corso lascia però intravedere i prodromi di una depressione economica che, in preoccupante analogia con quanto avvenuto negli anni trenta del secolo scorso, sta già falcidiando l’occupazione con il rischio di creare, ormai a livello planetario, milioni di disoccupati e di nuovi poveri. Per uscirne avremo bisogno di soluzioni efficaci e innovative per tutti i problemi che si presenteranno a partire dalla necessaria tutela dell’occupazione nei settori che già oggi vivono una crisi profonda.

Questo ci imporrà un nuovo modello economico?

Si, un nuovo modello di sviluppo che sarà inevitabilmente fondato sul rispetto dell’ambiente, dell’ecosistema e sul maggiore sfruttamento delle energie rinnovabili. In un tale contesto economico le forze produttive si catalizzeranno soprattutto sui settori della ricerca scientifica e delle sue applicazioni tecnologiche. A noi spetta la capacità di convogliare il più possibile questi nuovi modelli di sviluppo sulle necessità e sui bisogni delle persone piuttosto che sul profitto e s’imporrà la necessità di ridisegnare una nuova carta dei diritti del lavoro proprio a partire dai settori della conoscenza.

La pandemia ha nuovamente messo al centro del dibattito l’importanza dell’istruzione e della ricerca.

Fortunatamente si. È innegabile che lo sforzo che il settore dell’istruzione e della formazione, con tutte le professionalità che lo compongono, in questa crisi ha già espresso, manifestando un enorme senso di responsabilità che ha evitato di lasciare, per mesi, totalmente priva di formazione un’intera generazione.  Parimenti il mondo della ricerca ha espresso una profondità di intervento che ormai traspare nella centralità del dibattito pubblico dell’intero Paese e che, contestualmente, preannuncia la necessità di un impegno straordinario per far ripartire il nostro Paese innanzitutto mettendo al centro i temi della salute, della sicurezza e del rispetto ambientale.

Quali opportunità dovremo cogliere per il futuro?

Avremo senz’altro bisogno di correggere la rotta degli ultimi anni in cui l’interesse pubblico è spesso stato sacrificato sull’altare di profitti facili. Per affrontare questa crisi serve necessariamente uno Stato protagonista dell’economia ma con un cervello strategico che metta insieme programmazione economica e nuovo sviluppo fondandolo su scienza e tecnologia nell’unica direzione possibile: quella della sostenibilità ambientale e sociale. Trasformiamo le difficoltà prodotte da un virus letale cha messo a nudo le debolezze e fragilità del nostro modo di vivere, nell’opportunità di correggere un sistema ormai sopraffatto da insanabili contraddizioni e nell’intento comune di ridisegnare l’economia di un Paese che, da Sud a Nord, si sviluppi nel segno della sostenibilità ambientale, delle produzioni eco-compatibili, del riassetto del territorio e dell’innovazione avendo al centro la scuola, la formazione, la ricerca e la conoscenza.

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