In Commissione Europea è stata presa la decisione di deferire l’Italia alla Corte di giustizia dell’Unione europea per l’utilizzo abusivo e reiterato di contratti a tempo determinato e per le condizioni di lavoro discriminatorie previste nel nostro sistema scolastico. Secondo la Commissione, l’Italia, in piena violazione delle previsioni contenute nella Direttiva del Consiglio 1999/70/CE, non ha disposto norme necessarie per vietare la disparità di condizioni di lavoro e il ricorso abusivo a contratti a tempo determinato successivi.
Inoltre, la Commissione osserva che la legislazione italiana che determina la retribuzione dei docenti a tempo determinato nelle scuole pubbliche non prevede una progressione salariale incrementale basata sui precedenti periodi di servizio. Questo costituisce un’ulteriore discriminazione rispetto agli insegnanti assunti a tempo indeterminato.
La decisione odierna di deferire il caso alla Corte di giustizia dell’Unione europea dà seguito alle censure formulate nel parere motivato dell’aprile 2023, in quanto la risposta dell’Italia è stata assolutamente insufficiente.
Infatti, nell’anno scolastico 2024/25 saranno ben 250.000 i lavoratori precari docenti e ATA che presteranno servizio nelle scuole del nostro paese. Tale numero rappresenta la misura del fallimento delle politiche del reclutamento portate avanti dai governi che si sono succeduti grazie ai quali 1 lavoratore su 4 oggi a scuola è precario.
La procedura di infrazione certifica una condizione che la FLC CGIL non ha mai smesso di denunciare chiedendo soluzioni rapide ed efficaci sostenute da diverse iniziative di mobilitazione a fianco delle lavoratrici e dei lavoratori precari. Occorre, innanzitutto, procedere all’immissione in ruolo su tutti i posti vacanti e disponibili sia per i docenti che per il personale ATA e stabilizzare i posti di sostegno che sono oltre 130.000 per dare prospettive certe a chi oggi, da lavoratore precario, permette alla scuola di funzionare.
Anche sul versante salariale il governo non ha fatto nulla, stanziando risorse assolutamente insufficienti per il rinnovo del contratto che non solo non permettono di equiparare gli stipendi tra personale a tempo determinato e indeterminato ma neppure di recuperare il tasso d’inflazione.