Oltre l’emergenza, contro la crisi, rilanciare la ricerca pubblica e il sistema degli EPR

L’emergenza sanitaria porta alla luce tutti i ritardi che il Paese ha accumulato negli ultimi tre decenni, a cominciare da quello gravissimo che riguarda gli investimenti in Ricerca e innovazione, individuato già da tempo come causa della peculiare debolezza del nostro Paese.

Nelle prossime settimane si discuterà in Parlamento, il decreto Rilancio, già varato dal Governo, con il quale si apre una fase di impegno straordinario dello Stato per far fronte alla crisi economica che la pandemia in corso sta provocando nel nostro Paese, e che parimenti riguarda l’Europa e il mondo nel suo complesso.

Emergenza Coronavirus: notizie e provvedimenti

L’esplosione pandemica ha mostrato in modo drammatico come la Ricerca (e anche la Sanità) rappresenti una infrastruttura basilare per la protezione della società e la promozione del benessere sociale ed economico del Paese. Riteniamo fondamentale evitare che la politica commetta, nella gestione della crisi attuale, gli errori del passato. A partire dalla crisi finanziaria del 2008, l’Italia ha infatti avviato un pericoloso percorso di progressivo disinvestimento in Ricerca, mentre gli altri paesi europei promuovevano politiche di incremento della quota di pil dedicata a R&S, aumentando così il divario già esistente tra Italia e resto d’Europa. Rappresentiamo come gli interventi, in particolare fiscali (credito di imposta), rivolti al settore delle imprese non hanno, sin qui, contribuito in maniera consistente all’assorbimento di occupazione qualificata e ad estendere l’area privata impegnata in Ricerca ed Innovazione nel nostro Paese.

Se prendiamo a parametro il Fondo Ordinario degli Enti Pubblici di Ricerca vigilati dal Mur, nel 2009 la consistenza era pari a 1.744 milioni di euro, nel 2019 sono 1.718 milioni di euro, considerando l’inflazione si tratta di una perdita di circa 250 milioni di euro in dieci anni. Attualmente la quota di Pil che l’Italia investe in Ricerca è pari a 1,35% mentre per la Francia è 2,19% e per la Germania 3,02% (la media UE è di 1,99).

Il risultato di questo deficit ha come conseguenza che l’Italia ha circa 1/3 dei ricercatori tedeschi e metà di quelli francesi e inglesi. Il rapporto tra il personale T/A e quello di ricerca è basso, 1 T/A per ogni ricercatore in Italia contro 2 o 3 per 1 ricercatore in molti paesi europei.

Le misure introdotte per la Ricerca nel decreto rilancio, varato dal CdM lo scorso 15 maggio, sembrano voler interrompere la politica dei tagli lineari conosciuta nella stagione della precedente crisi finanziaria, con particolare riguardo alle istituzioni scientifiche pubbliche.

Tuttavia, non è più rinviabile il consolidamento e l’ampliamento dell’infrastruttura pubblica di ricerca come parte rilevante del piano di rilancio del paese. Ciò che l’emergenza sanitaria ha fatto emergere drammaticamente è che la politica ha il compito di recuperare il terreno perso negli ultimi anni avviando un nuovo patto tra scienza, società e sviluppo.

Quelle che seguono sono alcune delle priorità di cui il governo e il parlamento dovranno a nostro avviso farsi carico a partire dalla conversione in aula del Decreto Rilancio. Alcune di esse erano già messe a tema nell’accordo del 24 aprile 2019 con il precedente governo.

– È indispensabile, proprio al fine di definire una politica unitaria della ricerca in sinergia con le strategie di sviluppo, realizzare una governance unica del Sistema Ricerca che superi la distinzione artificiale tra strutture che svolgono attività di servizio e sperimentazione e strutture che svolgono attività di ricerca cosiddetta non strumentale. Deve essere definitivamente archiviata la distinzione tra Enti vigilati dal Miur e Enti vigilati da altri ministeri. Si dovrà coerentemente istituire un unico fondo ordinario di tutti gli enti di ricerca. Tale governance dovrà essere in grado anche di favorire il rapporto tra Ricerca e Sviluppo e quindi di dare un contributo al cambiamento della specializzazione produttiva del paese, orientandola sui grandi bisogni sociali del nostro tempo (pensiamo solo a titolo esemplificativo, oltre alle questioni sanitarie anche al tema della sostenibilità ambientale). Il coordinamento dovrà riguardare il tema dei finanziamenti alla ricerca provenienti dai diversi ministeri e dalle diverse agenzie governative, come avviene in altri paesi europei.

In questo ambito l’Agenzia Nazionale per la Ricerca dovrà connotarsi soprattutto nella capacità anche operativa di aumentare l’efficienza gestionale delle risorse, migliorare le ricadute innovativo-occupazionali degli investimenti, ma non dovrà limitare ruolo ed autonomia degli stessi Enti Pubblici di Ricerca.

Qualunque coordinamento ed indirizzo delle attività di ricerca, in grado di superare l’attuale divisione e compartimentazione delle risorse tra i vari Ministeri, deve essere dunque strettamente connesso con gli organi di rappresentanza della comunità scientifica e garantire una quota fondamentale delle proprie risorse alla libera ricerca in ogni ambito disciplinare.

Il Programma Nazionale della Ricerca (PNR) nella nuova proiezione 2021- 2027, collegata strettamente alla programmazione dei Fondi Strutturali UE e di “Horizon Europe” dovrà continuare ad essere il punto di riferimento programmatico fondamentale della concentrazione e della allocazione finalizzata delle risorse. Alla sua stesura non potrà questa volta mancare il contributo essenziale della comunità scientifica degli EPR e delle rappresentanze sociali ed i suoi indirizzi dovranno favorire ed incentivare le sinergie ed un efficiente-efficace rapporto tra pubblico e privato che fin qui non ha funzionato.

– Serve un indirizzo politico chiaro, oggi più che mai, in tema di R&S, fondato su obiettivi strategici anche di medio e lungo periodo. Occorre incrementare le risorse strutturali in ricerca per recuperare il grave divario con i competitor internazionali. A tal fine è prioritario incrementare i fondi ordinari delle istituzioni di ricerca. La promozione di progetti di ricerca finalizzati, quali i First e i Prin, è un elemento utile, ma non può mutuare il bisogno urgente di ridare ossigeno alle dotazioni finanziarie di base della Ricerca. Le necessità derivate dalla crisi pandemica devono essere considerate un monito per la politica. Dotare i piani di ricerca degli enti, e le comunità scientifiche che li presiedono, di risorse adeguate così da poter scegliere, in autonomia, la direzione di sviluppo della ricerca deve essere una priorità assoluta per la protezione dei cittadini, per il benessere e il rilancio del Paese.

– Gli interventi devono prevedere una numerosità di personale impiegato con contratti stabili nelle istituzioni di ricerca al pari di quelle europee. È necessario, quindi, definire un percorso di reclutamento sistematico che consenta di prevenire la formazione di sacche estese di precariato e recuperi progressivamente il divario esistente tra l’Italia e i partner europei rispetto al numero di addetti impiegato nei settori della ricerca anche attraverso la conclusione dei percorsi di stabilizzazione in atto.

Per questo riteniamo molto grave l’intervento emendativo contenuto nel decreto di costituzione del Mur teso a sottrarre agli Enti di Ricerca il diritto alla stabilizzazione sancito nel decreto “milleproroghe” per il personale delle altre pubbliche amministrazioni. Peraltro tale misura rappresenta un pericoloso capovolgimento anche rispetto ai principi sanciti dal nuovo articolo 12-bis del D.lgs. 218/16 che viceversa indirizza il settore nella giusta direzione.

– L’assenza prolungata di un intervento teso alla valorizzazione delle professionalità della Ricerca, contribuisce a generare un’emorragia costante di conoscenza e competenze preziosissime, e finisce per indirizzare parte rilevante dell’eccellenza del nostro personale alla crescita di altri Paesi. La crisi pandemica mondiale se da un lato ha messo in luce una rinnovata volontà di cooperazione tra le diverse nazioni, allo stesso tempo ha rivelato anche tensioni competitive proprio sul terreno delle conoscenze e delle competenze scientifiche. La tendenza crescente certificata dall’Istat, dei giovani più qualificati a investire con maggior facilità il proprio talento nei Paesi esteri in cui sono maggiori le opportunità di carriera e di retribuzione ha assunto nel tempo una dimensione allarmante. Per aumentare il grado di attrattività delle istituzioni italiane in un mercato del lavoro di per sé transnazionale come quello della ricerca, è necessario invertire la rotta riportando le retribuzioni del personale di ricerca al più presto in linea con la media delle retribuzioni dei paesi europei nostri competitor diretti.

Fondamentale, in tale ottica, valorizzare il ruolo del Contratto Nazionale di Lavoro. Purtroppo il diritto a veder riconosciuta la crescita del proprio percorso professionale sancito, fin dal 2015, dalla Carta europea del Ricercatore non è limitato solo dalla scarsità di risorse, ma anche da continue invasioni di campo e sovraproduzioni normative, interpretazioni ministeriali e complessivi approcci burocratici, che in questi anni hanno impedito al contratto nazionale di svolgere pienamente il proprio compito regolativo.

La conseguenza è stata il blocco, di fatto, delle carriere per oltre un decennio di ricercatori e tecnologi, un forte rallentamento per quelle di tecnici e amministrativi e una importante compressione e ingabbiamento della quota accessoria del salario, fino a raggiungere il paradosso per il quale gli enti di ricerca che, con proprie risorse, erano in condizione di assumere nuovo personale, non potevano farlo a causa del “divieto” di far crescere in valore assoluto la consistenza del fondo accessorio.

– Fondamentale proseguire il percorso avviato con il D. lgs. 218/16 rafforzando un quadro normativo specifico, differenziato da quello del resto del pubblico impiego che interessi il settore Ricerca. Le sfide della Ricerca e il contesto europeo in cui si è chiamati al confronto hanno bisogno di ribadire il principio dell’autonomia degli enti, la netta separazione fra compiti di indirizzo e di gestione, nonché la necessità di una maggiore flessibilità organizzativa. In questo contesto i vincoli stringenti del D.lgs. 165/2001 o l’assurdo meccanismo della valutazione attraverso la performance, introdotto dal D.lgs. 150/09, vanno rimossi.

Deve essere garantita alle singole istituzioni scientifiche una più forte capacità di autonormazione fissando, per legge, i soli limiti che possono, anche secondo la Costituzione, essere posti all’autonomia statutaria, procedendo per questa via verso una progressiva sburocratizzazione del funzionamento degli Enti Pubblici di Ricerca.

Condividi

Leggi anche

Più forti, insieme

Prendi parte, iscriviti alla CGIL

Per restare aggiornati

La newsletter della Conoscenza

Torna in alto