L’emergenza sanitaria evidenzia tutte le fragilità dell’università e la crisi rischia di determinarne un’ulteriore frammentazione. Fondamentale trovare risorse e investimenti, ma anche cambiare le politiche dell’ultimo decennio. Una elaborazione FLC CGIL.
Il sistema universitario italiano ha conosciuto negli ultimi trent’anni un continuo processo di trasformazione, inserito in una più complessiva corrente che ha attraversato tutti i paesi OCSE, caratterizzata da politiche neoliberiste di implementazione di logiche di mercato (o quasi mercato) nella pubblica amministrazione e in particolare nei suoi sistemi formativi. Questo processo in Italia è stato peraltro incerto, tortuoso e contrastato almeno fino alla grande crisi del 2008, e alla successiva nuova riforma di sistema (la legge 240/2010, c.d. “Gelmini”), con il suo corollario di logiche gerarchiche, competitive e premiali. L’intrecciarsi di un significativo taglio di risorse con questa riforma di sistema ha innescato la deriva che ha profondamente segnato l’università italiana nell’ultimo decennio.
L’emergere in maniera dirompente del “fattore COVID-19” ha mostrato tutta la fragilità e la debolezza dei paradigmi sociali ed economici alla base delle suddette logiche di mercato. L’insostituibilità del Servizio Pubblico nazionale è emersa in tutta la sua naturale evidenza, in particolare in alcuni Servizi Pubblici come quello della Sanità, della Protezione civile, dei Vigili del Fuoco, dell’Istruzione e della Ricerca che, pur in condizioni estreme, hanno continuato a garantire i diritti Costituzionali dei cittadini e la maggior coesione sociale possibile. In questa fase le priorità proprie dell’ideologia neo-liberista sono apparse inutili e inefficaci a garantire i Diritti Fondamentali della persona. La discussione che era in corso sull’Autonomia Differenziata delle Regioni è stata investita dalla consapevolezza della necessità di un intervento centralizzato dello Stato in tutte le sue articolazioni. E a questo proposito sarebbe auspicabile e di grande importanza, in questa fase di emergenza sanitaria, un intervento ministeriale, condiviso con le parti sociali, per un protocollo nazionale per la sicurezza di tutto il personale universitario.
In poche parole, in tempi di Coronavirus si riscopre lo stato sociale: l’esigenza di avere più medici, più infermieri, più ricercatori, ecc. Sul versante economico si comprende l’intervento economico dello Stato per contrastare il fermo delle attività e l’aggravarsi della crisi economica del Paese: i cittadini chiedono più Stato. Ma “più Stato” vuol dire più risorse pubbliche e quindi, partendo dall’assunto di non voler tagliare ulteriormente i servizi pubblici, dalla sanità all’istruzione, ciò significa necessariamente più entrate tributarie e maggiore competitività del nostro Paese, con politiche di investimenti per un modello di sviluppo più sostenibile ed ecocompatibile, aspetto che rende centrale il ruolo della formazione terziaria e della ricerca, come recentemente ricordato anche dal Presidente del Consiglio Conte: “il progresso morale e materiale, il futuro stesso dei nostri giovani e del nostro Paese, non possa più prescindere da un investimento che sia concreto, consistente e anche duraturo nelle linee di azione dell’università e della ricerca”.
È necessario che questa emergenza e le politiche di gestione e contrasto della conseguente crisi siano l’occasione per riaprire un confronto sull’università e la sua funzione nella società contemporanea, ripensando e invertendo le scelte economiche e il senso delle riforme strutturali dell’ultimo decennio.
Qui una nostra elaborazione sul rilancio dell’università e della ricerca.